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Parlare due lingue protegge dall’Alzheimer

Per la prima volta in 20 anni, la Fda ha concesso la piena approvazione a un farmaco, il lecanemab, per il trattamento della malattia di Alzheimer

Identificate le basi neurologiche grazie a cui il cervello delle persone bilingui è in grado di compensare i danni causati della malattia di Alzheimer

Le persone bilingui risultano più protette contro la demenza di Alzheimer, che si manifesta in questi individui in età più avanzata e con sintomi meno intensi. Parlare due lingue lungo l’arco della vita modifica infatti la funzione cerebrale, per quanto riguarda sia l’attività metabolica frontale sia la connettività tra specifiche aree del cervello, tanto da compensare i danni prodotti dalla malattia. È il risultato di uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS). A coordinare la ricerca è la professoressa Daniela Perani, direttrice dell’Unità di Neuroimaging molecolare e strutturale in vivo nell’uomo dell’IRCCS Ospedale San Raffaele – una delle 18 strutture di eccellenza del Gruppo ospedaliero San Donato – e docente presso l’Università Vita-Salute San Raffaele. I risultati dello studio rappresentano un contributo fondamentale alla ricerca dei fattori in grado di ritardare o contrastare una malattia ancora priva di cure farmacologiche efficaci.

Secondo recenti studi epidemiologici, essere bilingue può ritardare l’esordio di alcuni tipi di demenza senile fino a 5 anni. Tuttavia, i meccanismi neurobiologici che sottendono questo effetto protettivo sono ancora largamente sconosciuti. La ricerca guidata da Daniela Perani è la prima a studiare un gruppo ampio di pazienti affetti da demenza di Alzheimer – 85 persone, di cui metà italiani monolingue e metà bilingui, originari dell’Alto Adige – attraverso una tecnica di imaging chiamata FDG-PET (un tipo di tomografia a emissione di positroni che permette di misurare il metabolismo cerebrale e la connettività funzionale tra diverse strutture del cervello).

In linea con le precedenti evidenze, i pazienti bilingui affetti da demenza di Alzheimer sono risultati in media più vecchi di 5 anni rispetto ai monolingue e hanno ottenuto punteggi più alti in alcuni test cognitivi volti a valutare la memoria verbale e visuo-spaziale (la capacità di riconoscere luoghi e volti). L’uso della FDG-PET ha svelato che questi pazienti, a fronte della migliore performance cognitiva, hanno però un metabolismo più gravemente ridotto nelle aree cerebrali tipicamente colpite dalla malattia, indice di neurodegenerazione, rispetto ai pazienti monolingue. Questo fenomeno controintuitivo è la prova che il bilinguismo costituisce una cosiddetta “riserva cognitiva” che funziona da difesa contro l’avanzare della demenza. «È proprio perché una persona bilingue è capace di compensare meglio gli effetti neurodegenerativi della malattia di Alzheimer» spiega Daniela Perani «che il decadimento cognitivo e la demenza insorgeranno dopo, nonostante il progredire della malattia».

Ma quali sono i meccanismi di compensazione? Nello studio appena pubblicato, i ricercatori mostrano che il cervello dei pazienti che parlano due lingue, rispetto a quello dei pazienti monolingue, presenta una maggiore attività metabolica nelle strutture cerebrali frontali– implicate in compiti cognitivi complessi – e una maggiore connettività cerebrale in due importanti network cerebrali che sottendono le funzioni di controllo cognitivo ed esecutivo.  Sarebbero anche questi meccanismi a garantire ai pazienti bilingue performance cognitive migliori a fronte della perdita di strutture e funzioni cerebrali importanti.

Attraverso un questionario costruito ad hoc sull’uso delle due lingue, lo studio dimostra inoltre che gli effetti positivi del bilinguismo dipendono anche dal livello di esposizione e di utilizzo delle due lingue. «Confrontando i risultati del questionario con quelli della PET e con la performance dei pazienti» spiega Daniela Perani «si osserva che più le due lingue sono utilizzate, maggiori sono gli effetti a livello cerebrale e migliore è la performance. Il punto non è quindi conoscere due lingue, ma usarle costantemente in maniera attiva e durante tutto l’arco della vita. Questo dovrebbe suggerire alle politiche sociali degli interventi atti a promuovere e mantenere l’uso delle lingue e altrettanto dei dialetti nella popolazione».

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